«I personaggi di questa storia sono inventati. I messaggi dei media sono autentici.»
Così Massimo Fini nella seconda di copertina del suo primo romanzo, “Il Dio Toth”, edito da Marsilio (pp. 192, 15 €). È lo sconcerto ad assalire il lettore, fin dalle prime pagine; la domanda che si pone invece, proseguendo via via nella lettura, è la seguente: nel momento in cui pretendiamo di informarci tramite terzi, non essendo direttamente a contatto con il fatto, quali possono essere le conseguenze? Se è vero, come scriveva Bonaventura Zumbini, che «la verità è un po' dappertutto, ma dappertutto esagerata ed offuscata», come orientarsi? Proprio la vicinanza di Massimo Fini al mondo dell’informazione rende questa testimonianza – seppur traslata nel contesto romanzesco – così importante per chi voglia dare una risposta a questi interrogativi.
Nel suo romanzo il personaggio della Grande Mousse sostiene che il giornalista ha non solo il compito di informare, ma anche quello di formare. Lei dà a quest’ultimo termine un’accezione negativa, forse anche perché la Grande Mousse oltre ad avere il potere dell’informazione detiene il potere politico…
Sì, formare il cittadino è tipico di ogni Stato autoritario, sostanzialmente; il famoso Stato etico, dove lo Stato si occupa anche delle cose private del cittadino, della moralità del cittadino,… E quindi in questo senso informare nella bocca del capo del giornale, che poi è anche il capo del paese, ha ovviamente un’accezione negativa.
Sì ma il giornalista nella scelta delle notizie, nei commenti che accompagna alle stesse notizie, filtra tutto attraverso il proprio pensiero, dando quindi anche una visione del mondo che è la propria.
Fino ad un certo punto, perché per quanto possa sempre essere tutto molto opinabile (un bellissimo film giapponese, “Rashōmon”, fa vedere come lo stesso fatto visto da 5 persone diverse abbia 5 interpretazioni diverse) in relativo i fatti restano i fatti: quindi se tu vedi uno che sta pugnalando un altro questo devi scrivere. Nella cronaca il margine di interpretazione è relativo.
Dico questo perché leggendo diverse testate di opposti orientamenti politici sembra di essere dinanzi a delle italie completamente diverse l’una dall’altra…
Sì, anche perché qui si parla di politica: siccome la politica è fatta di parole e non di fatti, è chiaro che si possono dire le cose più diverse, contrastanti nel modo più totale, e nessuno ha torto e nessuno ha ragione. È uno dei “vizî” della democrazia, che è fatta sostanzialmente di parole.
Un altro tema cardine del suo libro è la teoria secondo la quale la troppa informazione è in realtà solamente illusione di essere informati…
La troppa informazione uccide l’informazione. Questo vale non solo per l’informazione, ma per tutto. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: un cucchiaio di minestra ti salva dalla morte per fame, due ti fanno stare un po’ meglio, tre ti fanno star bene, il centesimo ti uccide. L’eccesso di informazione finisce per passarti attraverso e alla fine tu non ritieni nulla, un po’ come in quel mondo che io descrivo, che non è troppo lontano da quello di oggi.
E proprio a questo volevo arrivare: attraverso la televisione prima e internet poi sembra si stia giungendo a questa situazione: un mondo nel quale si è sommersi da messaggi e da informazioni senza che in realtà rimanga nulla all’interno della persona.
Rimane molto poco. Ci fu un’interessante inchiesta fatta negli Stati Uniti tanti anni fa in cui venivano messi a paragone ragazzi che avevano vissuto nell’era pre-televisiva e ragazzi che invece vivevano nell’era televisiva. Non solo la qualità ma anche la quantità di informazioni ritenute dai secondi era inferiore a quella nei primi; una cosa che ti dice tuo nonno ti rimane in testa tutta la vita, centomila informazioni – anche per una questione di difesa – ti passano attraverso, perché se dovessi ritenerle tutte non vivresti più.
Sempre nel romanzo lei tratteggia due figure che possono essere in qualche modo positive: quella degli uninformed (individui che vivono ai margini del mondo “civilizzato” a cui non arriva alcun tipo di informazione, ndr) e quella di Matteo, il protagonista (un giornalista che ben presto si accorge di trovarsi in un sistema malato, ndr). Lei le ritiene soluzioni valide? L’isolamento è possibile in questo mondo ed è una soluzione accettabile, che può portare a qualcosa di positivo?
È possibile a prezzo dell’isolamento, perché in questo modo si diventa in qualche modo un disadattato; come lo è Matteo, che pur sostiene col suo lavoro quel sistema che poi ad un certo punto capisce essere tutta fuffa. È un po’ il problema, trasportando alle piccole cose, che ogni genitore si pone con i figli: faccio vedere loro la televisione così li cretinizzo o non gliela faccio vedere ma ne faccio degli spostati nell’ambiente in cui devono vivere?
Bel dilemma… Lei non mi pare abbia scelto comunque la strada della disinformazione più totale: è direttore politico di un mensile da oltre un anno (“La Voce del Ribelle”), collabora a “il Fatto quotidiano”,…
La mia scelta è in un certo senso contraddittoria… io nell’informazione ci lavoro, anche se si tratta di un’informazione più laterale, più marginale. Il problema è: o sto muto oppure parlo anche per dire questo. Pure su “la Voce del Ribelle” l’ho detto: noi utilizziamo – cercheremo di utilizzare – internet e questi mezzi ma l’obbiettivo è poi abbattere internet.
Lei in qualche momento mi pare un po’ sospeso tra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, che a volte sono in contrasto l’uno con l’altro…
Sono totalmente in contrasto tra loro; io ho una visione pessimistica del futuro, questa però non può essere l’atteggiamento di un giovane (i ragazzi che mi seguono hanno più o meno la tua età, 20, 25, 30 anni). Quindi anche la “Voce del Ribelle” e il movimento che ho creato (Movimento Zero, ndr) vogliono tentare di dare uno sbocco positivo, anche contando sul fatto che i giovani – per quello che riguarda il mio pensiero – non lo ripetono in modo talmudico ma lo rielaborano a modo loro e secondo le esigenze, perché comunque un ragazzo di vent’anni non può pensarla come un uomo di sessanta. Scrive Nietzsche: «non fa onore al suo maestro chi rimane sempre di secolo».
Lei ha sempre mantenuto un atteggiamento di denuncia verso la società che le magnifiche sorti e progressive hanno portato. Se lei dovesse dare un consiglio a un ragazzo di vent’anni, dal momento che le prospettive non sembrano delle più rosee, gli consiglierebbe di lottare avanti come ha fatto anche lei stesso?
Sì, io direi – se ci si crede – di fondere idee di questo genere, idee che sono anti-moderniste ma non per questo non attuali: la modernità quando è nata ha creato delle grandi speranze, ma ora ha fallito. io non colpevolizzo gli illuministi, Adam Smith o Marx, ma a due secoli e mezzo di distanza questo modello in realtà fa star più male che bene, anzi riesce a far star male anche chi sta bene: tant’è vero che fenomeni come depressione e nevrosi sono diffusi più fra i ceti abbienti che in quelli meno abbienti e sicuramente nel mondo occidentale più che nelle società tradizionali…
…e come ha scritto ne “La ragione aveva torto”, più nelle società moderne che in quelle pre-industriali.
Esatto. Ora non si tratta di ritornare al mondo delle caverne, ma di prendere dalle società che ci hanno preceduto alcuni insegnamenti di cui ci siamo completamente dimenticati. La civiltà greca aveva un profondo senso del limite che noi abbiamo perduto; i greci avevano una teoria della meccanica (attraverso Pitagora e Filolao) tramite la quale avrebbero potuto costruire macchine molto simili alle nostre, non lo fecero perché intuirono che andare a replicare la Natura era pericoloso. Molta parte dei loro miti dice questo: che il delirio di potenza dell’uomo – l’hybris – provoca la fthonos theòn, ovvero l’invidia degli dei e l’inevitabile punizione. Naturalmente qui siamo a livello mitico ma il senso è chiaro: l’uomo dev’essere in grado di auto-limitarsi sennò va incontro all’autodistruzione. Il frontespizio dell’oracolo di Delfi era “mai niente di troppo”. Dovremmo quindi riprendere alcune suggestioni del passato per correggere in modo molto radicale la società del presente, per riportare al centro della vita l’uomo e non l’economia o la tecnologia, le quali hanno avuto sempre una parte marginale nella vita dell’umano fino alla fine della rivoluzione industriale.
Lei ha fiducia nell’uomo?
Da una parte non ho fiducia nell’uomo, dall’altra lo vedo come un essere estremamente dolente, perché è l’unica creatura vivente consapevole in modo lucido della propria inevitabile fine. Per cui ci sono due elementi: l’uomo è sì condannato dalla sua stessa struttura (prendiamo appunto la conoscenza: l’uomo è portato a conoscere ma poi la conoscenza finisce per ritorcersi contro di lui; basti pensare a tutte le invenzioni che abbiamo creato, straordinarie sotto certi aspetti, che ci sono venute contro, alla fine); ma d’altro canto questa è la condizione dolorosa di un essere com’è l’essere umano. Chi lo ha inventato dovrebbe essere impiccato.
(intervista rilasciata venerdì 20 novembre 2009)
Così Massimo Fini nella seconda di copertina del suo primo romanzo, “Il Dio Toth”, edito da Marsilio (pp. 192, 15 €). È lo sconcerto ad assalire il lettore, fin dalle prime pagine; la domanda che si pone invece, proseguendo via via nella lettura, è la seguente: nel momento in cui pretendiamo di informarci tramite terzi, non essendo direttamente a contatto con il fatto, quali possono essere le conseguenze? Se è vero, come scriveva Bonaventura Zumbini, che «la verità è un po' dappertutto, ma dappertutto esagerata ed offuscata», come orientarsi? Proprio la vicinanza di Massimo Fini al mondo dell’informazione rende questa testimonianza – seppur traslata nel contesto romanzesco – così importante per chi voglia dare una risposta a questi interrogativi.
Nel suo romanzo il personaggio della Grande Mousse sostiene che il giornalista ha non solo il compito di informare, ma anche quello di formare. Lei dà a quest’ultimo termine un’accezione negativa, forse anche perché la Grande Mousse oltre ad avere il potere dell’informazione detiene il potere politico…
Sì, formare il cittadino è tipico di ogni Stato autoritario, sostanzialmente; il famoso Stato etico, dove lo Stato si occupa anche delle cose private del cittadino, della moralità del cittadino,… E quindi in questo senso informare nella bocca del capo del giornale, che poi è anche il capo del paese, ha ovviamente un’accezione negativa.
Sì ma il giornalista nella scelta delle notizie, nei commenti che accompagna alle stesse notizie, filtra tutto attraverso il proprio pensiero, dando quindi anche una visione del mondo che è la propria.
Fino ad un certo punto, perché per quanto possa sempre essere tutto molto opinabile (un bellissimo film giapponese, “Rashōmon”, fa vedere come lo stesso fatto visto da 5 persone diverse abbia 5 interpretazioni diverse) in relativo i fatti restano i fatti: quindi se tu vedi uno che sta pugnalando un altro questo devi scrivere. Nella cronaca il margine di interpretazione è relativo.
Dico questo perché leggendo diverse testate di opposti orientamenti politici sembra di essere dinanzi a delle italie completamente diverse l’una dall’altra…
Sì, anche perché qui si parla di politica: siccome la politica è fatta di parole e non di fatti, è chiaro che si possono dire le cose più diverse, contrastanti nel modo più totale, e nessuno ha torto e nessuno ha ragione. È uno dei “vizî” della democrazia, che è fatta sostanzialmente di parole.
Un altro tema cardine del suo libro è la teoria secondo la quale la troppa informazione è in realtà solamente illusione di essere informati…
La troppa informazione uccide l’informazione. Questo vale non solo per l’informazione, ma per tutto. È quello che ti insegnano al primo anno di economia: un cucchiaio di minestra ti salva dalla morte per fame, due ti fanno stare un po’ meglio, tre ti fanno star bene, il centesimo ti uccide. L’eccesso di informazione finisce per passarti attraverso e alla fine tu non ritieni nulla, un po’ come in quel mondo che io descrivo, che non è troppo lontano da quello di oggi.
E proprio a questo volevo arrivare: attraverso la televisione prima e internet poi sembra si stia giungendo a questa situazione: un mondo nel quale si è sommersi da messaggi e da informazioni senza che in realtà rimanga nulla all’interno della persona.
Rimane molto poco. Ci fu un’interessante inchiesta fatta negli Stati Uniti tanti anni fa in cui venivano messi a paragone ragazzi che avevano vissuto nell’era pre-televisiva e ragazzi che invece vivevano nell’era televisiva. Non solo la qualità ma anche la quantità di informazioni ritenute dai secondi era inferiore a quella nei primi; una cosa che ti dice tuo nonno ti rimane in testa tutta la vita, centomila informazioni – anche per una questione di difesa – ti passano attraverso, perché se dovessi ritenerle tutte non vivresti più.
Sempre nel romanzo lei tratteggia due figure che possono essere in qualche modo positive: quella degli uninformed (individui che vivono ai margini del mondo “civilizzato” a cui non arriva alcun tipo di informazione, ndr) e quella di Matteo, il protagonista (un giornalista che ben presto si accorge di trovarsi in un sistema malato, ndr). Lei le ritiene soluzioni valide? L’isolamento è possibile in questo mondo ed è una soluzione accettabile, che può portare a qualcosa di positivo?
È possibile a prezzo dell’isolamento, perché in questo modo si diventa in qualche modo un disadattato; come lo è Matteo, che pur sostiene col suo lavoro quel sistema che poi ad un certo punto capisce essere tutta fuffa. È un po’ il problema, trasportando alle piccole cose, che ogni genitore si pone con i figli: faccio vedere loro la televisione così li cretinizzo o non gliela faccio vedere ma ne faccio degli spostati nell’ambiente in cui devono vivere?
Bel dilemma… Lei non mi pare abbia scelto comunque la strada della disinformazione più totale: è direttore politico di un mensile da oltre un anno (“La Voce del Ribelle”), collabora a “il Fatto quotidiano”,…
La mia scelta è in un certo senso contraddittoria… io nell’informazione ci lavoro, anche se si tratta di un’informazione più laterale, più marginale. Il problema è: o sto muto oppure parlo anche per dire questo. Pure su “la Voce del Ribelle” l’ho detto: noi utilizziamo – cercheremo di utilizzare – internet e questi mezzi ma l’obbiettivo è poi abbattere internet.
Lei in qualche momento mi pare un po’ sospeso tra il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà, che a volte sono in contrasto l’uno con l’altro…
Sono totalmente in contrasto tra loro; io ho una visione pessimistica del futuro, questa però non può essere l’atteggiamento di un giovane (i ragazzi che mi seguono hanno più o meno la tua età, 20, 25, 30 anni). Quindi anche la “Voce del Ribelle” e il movimento che ho creato (Movimento Zero, ndr) vogliono tentare di dare uno sbocco positivo, anche contando sul fatto che i giovani – per quello che riguarda il mio pensiero – non lo ripetono in modo talmudico ma lo rielaborano a modo loro e secondo le esigenze, perché comunque un ragazzo di vent’anni non può pensarla come un uomo di sessanta. Scrive Nietzsche: «non fa onore al suo maestro chi rimane sempre di secolo».
Lei ha sempre mantenuto un atteggiamento di denuncia verso la società che le magnifiche sorti e progressive hanno portato. Se lei dovesse dare un consiglio a un ragazzo di vent’anni, dal momento che le prospettive non sembrano delle più rosee, gli consiglierebbe di lottare avanti come ha fatto anche lei stesso?
Sì, io direi – se ci si crede – di fondere idee di questo genere, idee che sono anti-moderniste ma non per questo non attuali: la modernità quando è nata ha creato delle grandi speranze, ma ora ha fallito. io non colpevolizzo gli illuministi, Adam Smith o Marx, ma a due secoli e mezzo di distanza questo modello in realtà fa star più male che bene, anzi riesce a far star male anche chi sta bene: tant’è vero che fenomeni come depressione e nevrosi sono diffusi più fra i ceti abbienti che in quelli meno abbienti e sicuramente nel mondo occidentale più che nelle società tradizionali…
…e come ha scritto ne “La ragione aveva torto”, più nelle società moderne che in quelle pre-industriali.
Esatto. Ora non si tratta di ritornare al mondo delle caverne, ma di prendere dalle società che ci hanno preceduto alcuni insegnamenti di cui ci siamo completamente dimenticati. La civiltà greca aveva un profondo senso del limite che noi abbiamo perduto; i greci avevano una teoria della meccanica (attraverso Pitagora e Filolao) tramite la quale avrebbero potuto costruire macchine molto simili alle nostre, non lo fecero perché intuirono che andare a replicare la Natura era pericoloso. Molta parte dei loro miti dice questo: che il delirio di potenza dell’uomo – l’hybris – provoca la fthonos theòn, ovvero l’invidia degli dei e l’inevitabile punizione. Naturalmente qui siamo a livello mitico ma il senso è chiaro: l’uomo dev’essere in grado di auto-limitarsi sennò va incontro all’autodistruzione. Il frontespizio dell’oracolo di Delfi era “mai niente di troppo”. Dovremmo quindi riprendere alcune suggestioni del passato per correggere in modo molto radicale la società del presente, per riportare al centro della vita l’uomo e non l’economia o la tecnologia, le quali hanno avuto sempre una parte marginale nella vita dell’umano fino alla fine della rivoluzione industriale.
Lei ha fiducia nell’uomo?
Da una parte non ho fiducia nell’uomo, dall’altra lo vedo come un essere estremamente dolente, perché è l’unica creatura vivente consapevole in modo lucido della propria inevitabile fine. Per cui ci sono due elementi: l’uomo è sì condannato dalla sua stessa struttura (prendiamo appunto la conoscenza: l’uomo è portato a conoscere ma poi la conoscenza finisce per ritorcersi contro di lui; basti pensare a tutte le invenzioni che abbiamo creato, straordinarie sotto certi aspetti, che ci sono venute contro, alla fine); ma d’altro canto questa è la condizione dolorosa di un essere com’è l’essere umano. Chi lo ha inventato dovrebbe essere impiccato.
(intervista rilasciata venerdì 20 novembre 2009)